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giovedì 25 febbraio 2016

Perché la luce fa starnutire alcune persone?

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La fotoptarmosi – o "starnuto riflesso fotico" – riguarda centinaia di milioni di persone in tutto il mondo ed è un mistero per la ricerca



starnuto
 Il cancelliere tedesco Angela Merkel trattiene uno starnuto (AP Photo/Axel Schmidt)Ci sono persone che appena escono di casa in una bella giornata di sole non possono fare a meno di starnutire, o che vanno in bagno nel cuore della notte, accendono la luce e ogni volta starnutiscono: succede sempre, anche quando non sono raffreddate o allergiche a qualcosa. È probabile che molte di loro non abbiano mai dato peso più di tanto alla cosa, né che sappiano di fare parte di un club che – a seconda delle ricerche – comprende tra il 15 e il 35 percento della popolazione mondiale. Quel club soffre di fotoptarmosi o starnuto riflesso fotico: nei paesi dove si parla inglese, la sindrome viene chiamata ACHOO (si legge “aciù”, come uno starnuto), dall’abbreviazione creativa della definizione “Autosomal dominant Comeplling Helio-Ophtalmic Outburst”. È una condizione ereditaria, dicono i ricercatori, che però a oggi non sono ancora riusciti a comprenderne fino in fondo le cause.La fotoptarmosi non sembra avere molto senso: di solito uno starnuto è indotto dalla presenza nelle vie respiratorie superiori di germi e altre sostanze, come polveri indesiderate che devono essere rapidamente espulse. La luce di per sé non costituisce in questo senso un pericolo, quindi la reazione è causata da qualcos’altro. Aristotele fu tra i primi a notare che alcune persone tendono a starnutire quando entrano in contatto con una fonte di luce intensa, come il sole, ma solo negli anni Cinquanta del Novecento iniziarono i primi studi approfonditi sul fenomeno. Grazie a queste ricerche si scoprì che la causa è un rapido lampo di luce: chi soffre di fotoptarmosi starnutisce se viene esposto all’improvviso a una fonte luminosa.Non trattandosi di una condizione invalidante o che causa altri tipi di sintomi, la fotoptarmosi è stata abbastanza trascurata, con una ventina di ricerche scientifiche che se ne sono occupate nel corso degli anni. Brian Resnick di Vox le ha messe a confronto elencando quattro teorie che potrebbero spiegare perché la luce improvvisa fa starnutire alcune persone.Sistema nervoso parasimpaticoUn’ipotesi è che il fenomeno sia legato a come funziona il sistema nervoso parasimpatico, la parte autonoma del nostro sistema nervoso che controlla buona parte delle azioni involontarie dell’organismo. La luce improvvisa lo porta ad attivarsi di colpo per fare restringere la pupilla e socchiudere gli occhi, corrucciando la fronte, in modo da ridurre l’esposizione: questo passaggio improvviso ha come effetto collaterale l’attivazione del meccanismo che ci fa starnutire. È una spiegazione che ha abbastanza senso, ma non spiega perché una reazione così comune porti solo un ristretto numero di persone a reagire con uno starnuto.Trigemino
trigemino

Altri ricercatori hanno ipotizzato che la causa sia da ricercare nel nervo ottico, che risponde alla luce e al tempo stesso passa in prossimità del quinto nervo facciale (trigemino), che controlla parte dei movimenti del viso. È possibile che quando il nervo ottico invia il suo segnale al cervello per dirgli di chiudere la pupilla, parte del segnale perturbi il trigemino – di suo molto sensibile – che segnala erroneamente al cervello la presenza di qualcosa nel naso da espellere: a quel punto parte lo starnuto. Non succede a tutte le persone perché solo alcune hanno la variante genetica che, secondo questa ipotesi, porta il trigemino a essere più in prossimità del nervo ottico.
Cervello
Una ricerca di qualche anno fa suggerisce invece che la causa sia sostanzialmente radicata nel cervello. Lo studio ha rilevato che la corteccia visiva, che riceve dagli occhi le informazioni sul campo visivo, viene stimolata più facilmente nelle persone con fotoptarmosi. Questo indica che il fenomeno potrebbe essere un riflesso più profondo di quelli che, per esempio, ci portano ad allontanare una mano da una fonte di calore prima di ustionarci.
Evoluzione
Infine, secondo altri ricercatori, la causa potrebbe essere legata a come si è evoluta la nostra specie. Secondo questa ipotesi, in un tempo remoto e non ben definito, è possibile che starnutire con facilità fosse utile per la sopravvivenza degli esemplari di umani più giovani. Ma anche in questo caso si tratta di supposizioni, che non portano a grandi risposte.
Diffusione
A dirla tutta i ricercatori non sanno nemmeno con certezza quanto sia diffusa la fotoptarmosi. La stima del 15-30 per cento della popolazione è molto approssimativa, ed è basata sui dati forniti da ricercatori che nel corso degli anni si sono occupati dal problema. Con un esame del sangue è possibile capire se una persona sia interessata o meno dalla condizione. Nel 1983 in Svezia furono condotte analisi su 500 donatori di sangue, arrivando alla conclusione che le persone interessate fossero circa il 20 per cento, ma il campione era comunque molto piccolo. Altri studi hanno provato a capire se la fotoptarmosi sia predominante in alcuni gruppi etnici, ma arrivando a conclusioni da prendere con le molle: sembra che sia poco diffusa tra gli afroamericani, per esempio, con un 2 per cento della popolazione interessata dal fenomeno. È bene comunque ricordare che la causa è una variante genetica dominante, quindi c’è il 50 per cento di probabilità che ogni nuovo nato da una persona con starnuto riflesso fotico abbia la stessa condizione.
L’azienda 23andMe, che esegue analisi del DNA per corrispondenza e mantiene un database per valutare l’andamento delle condizioni genetiche su base statistica, nel 2010 eseguì uno studio su diversi fattori genetici. La ricerca identificò, tra le altre cose, un marcatore genetico legato alla fotoptarmosi e già conosciuto per avere un ruolo negli attacchi epilettici. Il tema non è stato ancora approfondito, ma potrebbe portare a qualche progresso anche nello studio dell’epilessia.
La fotoptarmosi non è considerata pericolosa ma potrebbe diventarlo in alcune circostanze, per esempio se ci si trova alla guida. Il passaggio da una condizione di scarsa illuminazione a una di piena luce, come quando si esce da una galleria, può indurre una scarica di starnuti distraendo per qualche istante la persona che sta guidando. Il problema può riguardare anche diversi altri professionisti che lavorano all’aperto o i piloti d’aereo. A oggi non ci sono comunque notizie certe circa incidenti o morti dovute direttamente a uno starnuto riflesso fotico.

mercoledì 24 febbraio 2016

Un piccolo disco di cristallo per archiviare 360 TB di dati

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I ricercatori dell'Università di Southampton (Regno Unito) hanno dichiarato di aver messo a punto un supporto assolutamente imbattibile per la memorizzazione sicura dei dati a lungo termine.

Un sottile disco di cristallo può accogliere qualcosa come 360 Terabytes di dati garantendone la perfetta conservazione fino a 13,8 miliardi di anni. Leggasi "in eterno".
Il disco messo a punto, infatti, può resistere anche a temperature fino a 1.000 °C.

Un piccolo disco di cristallo per archiviare 360 TB di dati

Gli accademici di Southampton hanno usato la tecnica chiamata femtosecond laser writing che consente di creare nanostrutture a cinque dimensioni utilizzando veloci ed intensi impulsi luminosi.
I punti "disegnati" all'interno delle nanostrutture sono distanziati l'uno dall'altro di 5 micrometri (0,005 mm).

Perché si parla di cinque dimensioni (5D)? Oltre alla tre dimensioni che tutti ben conosciamo, quali sono le altre due?
La quarta dimensione è considerata la "grandezza" di ciascun punto mentre la quinta fa riferimento alla sua orientazione nel reticolo.

Le nanostrutture così create possono poi essere lette utilizzando un microscopio ottico in combinazione con un polarizzatore (un filtro che si occupa di bloccare la radiazione elettromagnetica a seconda della sua polarizzazione).
Secondo gli accademici, l'"invenzione" (che era già stata presentata nel 2013 ma che solamente oggi permette di memorizzare quantitativi di dati così impegnativi) potrà essere sfruttata da tutte quelle organizzazioni che si trovano quotidianamente a gestire enormi quantitativi di dati (vengono citati didatacenter di Facebook, per esempio).

Ecco la stampante 3D per realizzare tessuti umani

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Il team di esperti guidato dal professor Anthony Atala, già ampiamente noto per i suoi tanti esperimenti sull'argomento, pubblicati anche sulla rivista Nature ha comunicato di aver raggiunto un importante traguardo.

Presso l'Istituto di medicina rigenerativa Wake Forest (Stati Uniti), Atala insieme con i suoi collaboratori hanno messo a punto una stampante 3D capace di ricreare tessuti umani.

Ecco la stampante 3D per realizzare tessuti umani

I materiali stampati, stando ai risultati dei test condotti su topi di laboratorio, sarebbero eccezionali perché permetterebbero di replicare strutture del corpo umano azzerando ogni possibilità di necrosi.

L'Integrated Organ and Printing System (ITOP) svelato dai ricercatori statunitensi è una sorta distampante 3D che usa materiale biodegradabili, simili alla plastica che possono essere plasmati a proprio piacimento per formare tessuti umani.
La stampante 3D usa soluzioni acquose contenenti anche cellule umane e permette di ricreare quei microcanali che consentono il passaggio dell'ossigeno e delle sostanze nutritive.

Ecco la stampante 3D per realizzare tessuti umani

Certo, per anni si è parlato di materiali che possono essere impiantati chirurgicamente previa stampa tridimensionale. L'annuncio del team di Atala, però, è rilevante per tutta una serie di motivi: in primis, i tessuti stampati in 3D con il sistema ITOP che sono stati usati sui topi di laboratorio hanno evidenziato risultati eccellenti: in pochi mesi si è registrata la formazione di cartilagine e di vasi sanguigni. Ottimi risultati si sono registrati anche con l'utilizzo di strutture ossee create con la medesima stampante tridimensionale.
Dovrebbe quindi mancare poco all'avvio dei primi test su persone in carne ed ossa.

venerdì 19 febbraio 2016

MINIDISCHI 5D DA 360 TERABYTE: CONSERVERANNO DATI FINO A 14 MILIARDI DI ANNI

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minidischi 5d

I minidischi 5D (scrittura dei dati in cinque dimensioni) sembrerebbero essere il futuro della conservazione di dati grazie alla loro incredibile durata.

La tecnologia, nata nel 2013 grazie ai ricercatori dell'Università di Southampton, è stata ora perfezionata, passando dalla limitata capacità di 300kb per disco a ben 360 terabyte. Non si tratta, però, dell'unica capacità di questi piccolissimi dischi di memoria, simili a delle lenti; il vero punto di forza è infatti la durata stimata del loro funzionamento: ben 13,8 miliardi di anni.
La registrazione dei dati su questi particolari supporti è permessa grazie a dei potenti laser in grado di emettere impulsi di luce brevi ma molto intensi in grado di incidere dei punti disposti su tre differenti strati, separati da una distanza di appena cinque micrometri (milionesimi di metro). Oltre a queste tre posizioni sugli assi, ogni punto viene letto tenendo conto anche della sua dimensione e dell'orientamento:per questo si parla di cinque dimensioni.
Secondo gli scienziati dell'Università di Southampton la nanostruttura così creata ha permesso lacreazione di un supporto praticamente eterno, in grado di resistere a temperature fino a 1000 gradicentigradi e fino a 13,8 miliardi di anni se conservati a temperatura ambiente.
Al momento, questi minidischi sono già stati utilizzati per registrate e "immortalare" la Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo, il trattato di ottica di Newton, la Magna Carta e la Bibbia ma il dipartimento di ricerca che li ha ideati è già alla ricerca di partner per perfezionare ulteriormente la tecnologia e renderla disponibile sul mercato.
Fonte: gizmodo.com

sabato 13 febbraio 2016

DENTRO AL TITANIC II: ECCO LA REPLICA DEL FAMOSO TRANSATLANTICO

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Chi non ha mai sognato almeno una volta di viaggiare sul Titanic?
Il sogno diventerà realtà nel 2018, lo ha annunciato Clive Palmer, miliardario australiano, a capo dell’ambizioso progetto.
La nave sarà una riproduzione dell’originale: si comporrà su 9 piani, avrà 840 cabine e ospiterà fino a 2400 passeggeri più 900 membri dell’equipaggio.
Il viaggio inaugurale non partirà da Southampton, bensì dalla Cina con direzione Dubai.

martedì 2 febbraio 2016

Microsoft porta un datacenter sul fondo del mare

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Potrebbe sembrare un esperimento eccentrico, ai limiti dell'impossibile. In realtà Microsoft lo ha davvero realizzato.

La società di Redmond ha infatti realizzato un datacenter sul fondo del mare rendendolo pienamente operativo per circa quattro mesi.
È la stessa Microsoft a darne oggi ufficialmente notizia rivelando anche il nome dell'iniziativa: Project Natick.

Potrebbe apparire un'idea peregrina ma, secondo Microsoft, la realizzazione di datacenter in fondo alle acque dell'oceano può incrementare l'efficenza e ridurre i costi in maniera significativa rispetto all'impiego delle tradizionali soluzioni.

Microsoft porta un datacenter sul fondo del mare

I "datacenter marini" possono essere alimentati anche usando il moto ondoso, similmente a quanto si sta facendo con l'energia solare ed eolica per quelli terrestri (Facebook aprirà un altro data center in Europa eGoogle alimenta i datacenter con le energie rinnovabili).

Inoltre, possono godere di un sistema di raffreddamento estremamente efficiente: l'acqua, che avvolge interamente la capsula in cui è contenuto il datacenter, è sempre ad una temperatura relativamente costante e può essere usata per raffreddare efficacemente i componenti soggetti a maggior stress. Un sistema di raffreddamento a liquido che è sempre disponibile e che si può utilizzare "gratis".
Solo il tempo dirà se l'idea di Microsoft possa essere utilizzata per progetti su vasta scala.
Per adesso si sa solamente che l'azienda di Redmond sarebbe intenzionata ad aumentare la portata del progetto.

Sinora, infatti, il datacenter utilizzato per i primi test - e calato sul fondale dell'Oceano Pacifico - era contraddistinto da una potenza di calcolo piuttosto limitata (l'equivalente di circa 300 PC desktop). I tecnici di Microsoft vogliono ora "rilanciare" moltiplicando per 20 la potenza e per 4 le dimensioni del datacenter.